Trent’anni dopo Srebrenica, il difficile lavoro di chi cerca di dare un nome alle vittime: “Ci sono ancora 1000 corpi da trovare.
Sono passati trent’anni da quando le forze serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić uccisero circa 8mila musulmani che avevano cercato riparo a Srebrenica, l’area dichiarata protetta dalle Nazioni Unite e che nel luglio del 1995 si trasformò invece in una trappola mortale. In poche ore i maschi dai 12 anni in su furono prelevati e uccisi, il tutto avvenne di fronte al contingente dei Caschi blu, 400 peacekeeper olandesi la cui impotenza permise alle forze serbo-bosniache di agire indisturbati. Con la fine della guerra, in Bosnia-Erzegovina prese pian piano forma la necessità di trovare i morti e dare loro un nome. Da qui, la nascita nel 1996 dell’ICMP, la Commissione Internazionale per le persone scomparse, che ha avuto un ruolo decisivo nell’identificazione delle vittime del conflitto, per una percentuale che al momento si attesta attorno al 75%. Nel team che si occupa del riconoscimento delle vittime di Srebrenica lavora da oltre vent’anni l’antropologa forense Dragana Vučetić.
Nel suo laboratorio di Tuzla ricostruisce con pazienza i profili biologici dei resti ossei ritrovati nelle fosse comuni, estrapola campioni del Dna e li confronta con quelli forniti dalle famiglie che cercano ancora i propri cari. “Se la corrispondenza genetica è del 99,95% allora procediamo all’identificazione ufficiale” spiega Vučetić. La ricostruzione delle identità delle vittime di Srebrenica, tuttavia, presenta un elemento di difficoltà specifico. In quell’estate ci furono infatti almeno cinque luoghi di esecuzione. I responsabili dei crimini, dopo aver compiuto gli omicidi, cercarono di nascondere le evidenze e successivamente riaprirono le cosiddette fosse primarie per trasferire i corpi già in decomposizione nelle fosse secondarie. Questi spostamenti, effettuati con mezzi pesanti hanno contribuito allo smembramento dei cadaveri, col risultato che i resti appartenenti a una singola persona spesso sono stati ritrovati a chilometri di distanza. Proprio per questo motivo, per quanto riguarda le vittime di Srebrenica, è molto difficile che un singolo corpo sia ritrovato integralmente.
Il sistema dell’identificazione del Dna è stato adottato dalla Bosnia-Erzegovina nei primi anni del 2000 e ha comportato una vera svolta. Prima di allora, i match venivano effettuati con metodi tradizionali e imprecisi, basati sul riconoscimento dei vestiti o degli oggetti personali. “Molte famiglie riconoscevano lo stesso corpo come proprio parente, quindi possiamo dire che il sistema del Dna ci ha davvero aiutati”. Attualmente mancano all’appello ancora circa mille persone e la speranza è che lo sviluppo di nuove tecnologie possa dare un nuovo impulso al lavoro di localizzazione dei dispersi, che diventa sempre più complicata.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/07/11/genocidio-srebrenica-identificazione-vittime-oggi/8055647/
Sono passati trent’anni da quando le forze serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić uccisero circa 8mila musulmani che avevano cercato riparo a Srebrenica, l’area dichiarata protetta dalle Nazioni Unite e che nel luglio del 1995 si trasformò invece in una trappola mortale. In poche ore i maschi dai 12 anni in su furono prelevati e uccisi, il tutto avvenne di fronte al contingente dei Caschi blu, 400 peacekeeper olandesi la cui impotenza permise alle forze serbo-bosniache di agire indisturbati. Con la fine della guerra, in Bosnia-Erzegovina prese pian piano forma la necessità di trovare i morti e dare loro un nome. Da qui, la nascita nel 1996 dell’ICMP, la Commissione Internazionale per le persone scomparse, che ha avuto un ruolo decisivo nell’identificazione delle vittime del conflitto, per una percentuale che al momento si attesta attorno al 75%. Nel team che si occupa del riconoscimento delle vittime di Srebrenica lavora da oltre vent’anni l’antropologa forense Dragana Vučetić.
Nel suo laboratorio di Tuzla ricostruisce con pazienza i profili biologici dei resti ossei ritrovati nelle fosse comuni, estrapola campioni del Dna e li confronta con quelli forniti dalle famiglie che cercano ancora i propri cari. “Se la corrispondenza genetica è del 99,95% allora procediamo all’identificazione ufficiale” spiega Vučetić. La ricostruzione delle identità delle vittime di Srebrenica, tuttavia, presenta un elemento di difficoltà specifico. In quell’estate ci furono infatti almeno cinque luoghi di esecuzione. I responsabili dei crimini, dopo aver compiuto gli omicidi, cercarono di nascondere le evidenze e successivamente riaprirono le cosiddette fosse primarie per trasferire i corpi già in decomposizione nelle fosse secondarie. Questi spostamenti, effettuati con mezzi pesanti hanno contribuito allo smembramento dei cadaveri, col risultato che i resti appartenenti a una singola persona spesso sono stati ritrovati a chilometri di distanza. Proprio per questo motivo, per quanto riguarda le vittime di Srebrenica, è molto difficile che un singolo corpo sia ritrovato integralmente.
Il sistema dell’identificazione del Dna è stato adottato dalla Bosnia-Erzegovina nei primi anni del 2000 e ha comportato una vera svolta. Prima di allora, i match venivano effettuati con metodi tradizionali e imprecisi, basati sul riconoscimento dei vestiti o degli oggetti personali. “Molte famiglie riconoscevano lo stesso corpo come proprio parente, quindi possiamo dire che il sistema del Dna ci ha davvero aiutati”. Attualmente mancano all’appello ancora circa mille persone e la speranza è che lo sviluppo di nuove tecnologie possa dare un nuovo impulso al lavoro di localizzazione dei dispersi, che diventa sempre più complicata.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/07/11/genocidio-srebrenica-identificazione-vittime-oggi/8055647/
Trent’anni dopo Srebrenica, il difficile lavoro di chi cerca di dare un nome alle vittime: “Ci sono ancora 1000 corpi da trovare.
Sono passati trent’anni da quando le forze serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić uccisero circa 8mila musulmani che avevano cercato riparo a Srebrenica, l’area dichiarata protetta dalle Nazioni Unite e che nel luglio del 1995 si trasformò invece in una trappola mortale. In poche ore i maschi dai 12 anni in su furono prelevati e uccisi, il tutto avvenne di fronte al contingente dei Caschi blu, 400 peacekeeper olandesi la cui impotenza permise alle forze serbo-bosniache di agire indisturbati. Con la fine della guerra, in Bosnia-Erzegovina prese pian piano forma la necessità di trovare i morti e dare loro un nome. Da qui, la nascita nel 1996 dell’ICMP, la Commissione Internazionale per le persone scomparse, che ha avuto un ruolo decisivo nell’identificazione delle vittime del conflitto, per una percentuale che al momento si attesta attorno al 75%. Nel team che si occupa del riconoscimento delle vittime di Srebrenica lavora da oltre vent’anni l’antropologa forense Dragana Vučetić.
Nel suo laboratorio di Tuzla ricostruisce con pazienza i profili biologici dei resti ossei ritrovati nelle fosse comuni, estrapola campioni del Dna e li confronta con quelli forniti dalle famiglie che cercano ancora i propri cari. “Se la corrispondenza genetica è del 99,95% allora procediamo all’identificazione ufficiale” spiega Vučetić. La ricostruzione delle identità delle vittime di Srebrenica, tuttavia, presenta un elemento di difficoltà specifico. In quell’estate ci furono infatti almeno cinque luoghi di esecuzione. I responsabili dei crimini, dopo aver compiuto gli omicidi, cercarono di nascondere le evidenze e successivamente riaprirono le cosiddette fosse primarie per trasferire i corpi già in decomposizione nelle fosse secondarie. Questi spostamenti, effettuati con mezzi pesanti hanno contribuito allo smembramento dei cadaveri, col risultato che i resti appartenenti a una singola persona spesso sono stati ritrovati a chilometri di distanza. Proprio per questo motivo, per quanto riguarda le vittime di Srebrenica, è molto difficile che un singolo corpo sia ritrovato integralmente.
Il sistema dell’identificazione del Dna è stato adottato dalla Bosnia-Erzegovina nei primi anni del 2000 e ha comportato una vera svolta. Prima di allora, i match venivano effettuati con metodi tradizionali e imprecisi, basati sul riconoscimento dei vestiti o degli oggetti personali. “Molte famiglie riconoscevano lo stesso corpo come proprio parente, quindi possiamo dire che il sistema del Dna ci ha davvero aiutati”. Attualmente mancano all’appello ancora circa mille persone e la speranza è che lo sviluppo di nuove tecnologie possa dare un nuovo impulso al lavoro di localizzazione dei dispersi, che diventa sempre più complicata.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/07/11/genocidio-srebrenica-identificazione-vittime-oggi/8055647/
