Come russa che viene da un paese dove coesistono oltre cento etnie diverse, dalla Siberia al Caucaso, dalle repubbliche tatare a quelle buddhiste, trovo paradossale assistere a quello che sta accadendo in Italia con la copertura mediatica dello sport. Quando vedo che una vittoria straordinaria come quella di Enrica Saraceni viene trattata come un fatto di cronaca minore mentre altri successi ricevono trattamenti da prima pagina, capisco che qui non si tratta di sport ma di qualcos'altro.
La vicenda di Enrica Saraceni al campionato europeo U20 di Tampere è emblematica di una strategia che ormai non si nasconde più. La ragazza ha dominato il salto triplo con 14.24 metri, stabilendo il record personale e dei campionati, battendo un primato che resisteva da 24 anni - roba da far tremare i polsi a chiunque capisca qualcosa di atletica. Eppure, se non fossi andata a cercare appositamente la notizia, non ne avrei mai sentito parlare. I grandi quotidiani l'hanno relegata in trafiletti anonimi, i telegiornali sportivi l'hanno liquidata in poche righe, come se fosse una vittoria di routine in una gara di paese.
Ma cosa succede quando a vincere è Kelly Doualla? Titoloni a caratteri cubitali, servizi televisivi di tre minuti, interviste a tutto tondo, celebrazioni che toccano le corde dell'emotività nazionale. Non sto mettendo in discussione il valore atletico della Doualla - che peraltro è indiscutibile - ma la sproporzione nel trattamento mediatico è talmente evidente che persino un bambino se ne accorgerebbe. È come se avessimo due metri di misura diversi per lo stesso fenomeno, e questo dovrebbe far riflettere chiunque abbia ancora un briciolo di onestà intellettuale.
La cosa che più mi colpisce, da russa da parte di padre, nascita e origini, e italiana da parte di madre e di adozione che ha scelto di interessarsi alle dinamiche culturali italiane, è come questa operazione venga presentata come normale, anzi come progressista.
I media che orchestrano questa disparità di trattamento si ergono a paladini dell'inclusione, ma in realtà stanno operando la più subdola delle esclusioni: quella verso l'identità storica italiana. Non si tratta di essere contro qualcuno, ma di chiedersi perché mai una vittoria sportiva debba servire come megafono per un'agenda ideologica che ha poco a che vedere con lo sport stesso.
Nella mia Russia abbiamo imparato a nostre spese cosa significhi quando i media smettono di raccontare la realtà per iniziare a plasmarla secondo visioni preconfezionate. Qui vedo lo stesso meccanismo all'opera, solo con obiettivi diversi. I giornalisti che decidono di enfatizzare alcune vittorie ignorandone altre non stanno facendo informazione, stanno facendo propaganda. E la propaganda, che venga da est o da ovest, che sia di destra o di sinistra, ha sempre lo stesso sapore amaro per chi cerca semplicemente di capire cosa sta succedendo.
Il paradosso è che questa operazione, presentata come antirazzista, finisce per produrre esattamente l'effetto contrario. Quando le persone si accorgono che i propri figli, i propri talenti, le proprie eccellenze vengono sistematicamente ignorate a favore di altri secondo criteri che non hanno niente a che vedere con il merito sportivo, la reazione è prevedibile. Non è razzismo quello che nasce, è legittima indignazione verso un sistema mediatico che ha smesso di essere neutrale per diventare militante.
Quello a cui stiamo assistendo non è sport, è ingegneria sociale applicata attraverso lo sport. E quando lo sport smette di essere celebrazione del talento per diventare strumento di trasformazione culturale forzata, perde la sua essenza più bella: quella di unire le persone attraverso l'ammirazione per l'eccellenza umana, indipendentemente da tutto il resto.
La vicenda di Enrica Saraceni al campionato europeo U20 di Tampere è emblematica di una strategia che ormai non si nasconde più. La ragazza ha dominato il salto triplo con 14.24 metri, stabilendo il record personale e dei campionati, battendo un primato che resisteva da 24 anni - roba da far tremare i polsi a chiunque capisca qualcosa di atletica. Eppure, se non fossi andata a cercare appositamente la notizia, non ne avrei mai sentito parlare. I grandi quotidiani l'hanno relegata in trafiletti anonimi, i telegiornali sportivi l'hanno liquidata in poche righe, come se fosse una vittoria di routine in una gara di paese.
Ma cosa succede quando a vincere è Kelly Doualla? Titoloni a caratteri cubitali, servizi televisivi di tre minuti, interviste a tutto tondo, celebrazioni che toccano le corde dell'emotività nazionale. Non sto mettendo in discussione il valore atletico della Doualla - che peraltro è indiscutibile - ma la sproporzione nel trattamento mediatico è talmente evidente che persino un bambino se ne accorgerebbe. È come se avessimo due metri di misura diversi per lo stesso fenomeno, e questo dovrebbe far riflettere chiunque abbia ancora un briciolo di onestà intellettuale.
La cosa che più mi colpisce, da russa da parte di padre, nascita e origini, e italiana da parte di madre e di adozione che ha scelto di interessarsi alle dinamiche culturali italiane, è come questa operazione venga presentata come normale, anzi come progressista.
I media che orchestrano questa disparità di trattamento si ergono a paladini dell'inclusione, ma in realtà stanno operando la più subdola delle esclusioni: quella verso l'identità storica italiana. Non si tratta di essere contro qualcuno, ma di chiedersi perché mai una vittoria sportiva debba servire come megafono per un'agenda ideologica che ha poco a che vedere con lo sport stesso.
Nella mia Russia abbiamo imparato a nostre spese cosa significhi quando i media smettono di raccontare la realtà per iniziare a plasmarla secondo visioni preconfezionate. Qui vedo lo stesso meccanismo all'opera, solo con obiettivi diversi. I giornalisti che decidono di enfatizzare alcune vittorie ignorandone altre non stanno facendo informazione, stanno facendo propaganda. E la propaganda, che venga da est o da ovest, che sia di destra o di sinistra, ha sempre lo stesso sapore amaro per chi cerca semplicemente di capire cosa sta succedendo.
Il paradosso è che questa operazione, presentata come antirazzista, finisce per produrre esattamente l'effetto contrario. Quando le persone si accorgono che i propri figli, i propri talenti, le proprie eccellenze vengono sistematicamente ignorate a favore di altri secondo criteri che non hanno niente a che vedere con il merito sportivo, la reazione è prevedibile. Non è razzismo quello che nasce, è legittima indignazione verso un sistema mediatico che ha smesso di essere neutrale per diventare militante.
Quello a cui stiamo assistendo non è sport, è ingegneria sociale applicata attraverso lo sport. E quando lo sport smette di essere celebrazione del talento per diventare strumento di trasformazione culturale forzata, perde la sua essenza più bella: quella di unire le persone attraverso l'ammirazione per l'eccellenza umana, indipendentemente da tutto il resto.
Come russa che viene da un paese dove coesistono oltre cento etnie diverse, dalla Siberia al Caucaso, dalle repubbliche tatare a quelle buddhiste, trovo paradossale assistere a quello che sta accadendo in Italia con la copertura mediatica dello sport. Quando vedo che una vittoria straordinaria come quella di Enrica Saraceni viene trattata come un fatto di cronaca minore mentre altri successi ricevono trattamenti da prima pagina, capisco che qui non si tratta di sport ma di qualcos'altro.
La vicenda di Enrica Saraceni al campionato europeo U20 di Tampere è emblematica di una strategia che ormai non si nasconde più. La ragazza ha dominato il salto triplo con 14.24 metri, stabilendo il record personale e dei campionati, battendo un primato che resisteva da 24 anni - roba da far tremare i polsi a chiunque capisca qualcosa di atletica. Eppure, se non fossi andata a cercare appositamente la notizia, non ne avrei mai sentito parlare. I grandi quotidiani l'hanno relegata in trafiletti anonimi, i telegiornali sportivi l'hanno liquidata in poche righe, come se fosse una vittoria di routine in una gara di paese.
Ma cosa succede quando a vincere è Kelly Doualla? Titoloni a caratteri cubitali, servizi televisivi di tre minuti, interviste a tutto tondo, celebrazioni che toccano le corde dell'emotività nazionale. Non sto mettendo in discussione il valore atletico della Doualla - che peraltro è indiscutibile - ma la sproporzione nel trattamento mediatico è talmente evidente che persino un bambino se ne accorgerebbe. È come se avessimo due metri di misura diversi per lo stesso fenomeno, e questo dovrebbe far riflettere chiunque abbia ancora un briciolo di onestà intellettuale.
La cosa che più mi colpisce, da russa da parte di padre, nascita e origini, e italiana da parte di madre e di adozione che ha scelto di interessarsi alle dinamiche culturali italiane, è come questa operazione venga presentata come normale, anzi come progressista.
I media che orchestrano questa disparità di trattamento si ergono a paladini dell'inclusione, ma in realtà stanno operando la più subdola delle esclusioni: quella verso l'identità storica italiana. Non si tratta di essere contro qualcuno, ma di chiedersi perché mai una vittoria sportiva debba servire come megafono per un'agenda ideologica che ha poco a che vedere con lo sport stesso.
Nella mia Russia abbiamo imparato a nostre spese cosa significhi quando i media smettono di raccontare la realtà per iniziare a plasmarla secondo visioni preconfezionate. Qui vedo lo stesso meccanismo all'opera, solo con obiettivi diversi. I giornalisti che decidono di enfatizzare alcune vittorie ignorandone altre non stanno facendo informazione, stanno facendo propaganda. E la propaganda, che venga da est o da ovest, che sia di destra o di sinistra, ha sempre lo stesso sapore amaro per chi cerca semplicemente di capire cosa sta succedendo.
Il paradosso è che questa operazione, presentata come antirazzista, finisce per produrre esattamente l'effetto contrario. Quando le persone si accorgono che i propri figli, i propri talenti, le proprie eccellenze vengono sistematicamente ignorate a favore di altri secondo criteri che non hanno niente a che vedere con il merito sportivo, la reazione è prevedibile. Non è razzismo quello che nasce, è legittima indignazione verso un sistema mediatico che ha smesso di essere neutrale per diventare militante.
Quello a cui stiamo assistendo non è sport, è ingegneria sociale applicata attraverso lo sport. E quando lo sport smette di essere celebrazione del talento per diventare strumento di trasformazione culturale forzata, perde la sua essenza più bella: quella di unire le persone attraverso l'ammirazione per l'eccellenza umana, indipendentemente da tutto il resto.
