Cameroun : quando la Chiesa osa sfidare il régime prima si ritirarsi

Raramente, nella storia politica del Camerun, il clero cattolico ha pesato così tanto su un’elezione presidenziale. A pochi giorni dal voto del 12 ottobre 2025, i vescovi si sono imposti come una voce forte – quasi l’unica voce indipendente – di fronte a un regime vecchio di 43 anni.
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Un grido profetico nel cuore del deserto
Tutto è iniziato con una Lettera pastorale della Conferenza episcopale, lo scorso marzo. Un testo che ha avuto l’effetto di un fulmine a ciel sereno: i vescovi vi delineavano il ritratto del presidente che il Camerun merita – integro, umile, competente, difensore delle libertà, capace di dialogare e di lottare contro la corruzione. Qualità che risuonano come una critica implicita al potere attuale.
Poi, nelle omelie, nei sermoni e nei comunicati, arcivescovi e vescovi hanno alzato la voce: iscrivetevi in massa, votate, e votate per il cambiamento. In un Paese in cui le frodi elettorali sono quasi istituzionalizzate, questo appello a “strangolare la frode” attraverso una mobilitazione massiccia suonava come una strategia di resistenza civica.
Mons. Samuel Kleda, arcivescovo di Douala, è andato oltre. Di fronte all’ipotesi di una nuova candidatura di Paul Biya, 91 anni di cui 41 al potere, non ha nascosto la sua esasperazione:
«Non è realistico […] Siamo esseri umani. A un certo punto lasciamo questo mondo, non possiamo fare miracoli»,
ha dichiarato il prelato, evocando l’usura del tempo e la vanità della vita.
Il disagio del potere
Questo discorso ha destabilizzato Yaoundé. Il regime, che preferisce una Chiesa docile, si è trovato di fronte a preti divenuti tribuni. Per replicare, il potere ha giocato una vecchia carta: le autorità tradizionali. I notabili del Sud e dell’Est hanno moltiplicato le mozioni di sostegno a Paul Biya, arrivando perfino a organizzare rituali tradizionali al palazzo presidenziale per “proteggere” il vecchio leone della savana.
Ma nell’opinione pubblica il paragone è brutale: da un lato, i vescovi parlano di dignità, giustizia e verità; dall’altro, i capi tradizionali supplicano il presidente di ricandidarsi. Due visioni del Paese, due mondi che si affrontano.
«Anche il Diavolo prenda il potere»
Nell’Estremo Nord, Mons. Yaouda Hourgo, vescovo di Yagoua, ha alzato i toni. Evocando la miseria dei camerunesi, non ha usato mezzi termini:
«Non soffriremo più di così. Abbiamo già sofferto. Il peggio non verrà. Anche il Diavolo, che prenda per primo il potere in Camerun e poi vedremo»,
ha dichiarato, stimando che è urgente che un altro camerunese prenda finalmente il potere.
Un’uscita spettacolare, che risuona in un Paese abituato al linguaggio ovattato delle élite.
Benedizioni contese
L’autorità morale del clero è tale che alcuni candidati hanno cercato discretamente di ottenere la sua benedizione. Issa Tchiroma, ex ministro riciclatosi in opposizione, si è così mostrato accanto al vescovo di Bafoussam, sperando di catturare una parte di questa legittimità ecclesiale. Ma la Chiesa, prudente, rifiuta di schierarsi apertamente con un campo partigiano.
Il ripiegamento dopo la tempesta
Eppure, con l’avvicinarsi della campagna, il tono si è addolcito. Dopo aver scosso la società, il clero è rientrato nelle sue sacrestie. Preghiere, silenzio, discrezione. Come se avesse compiuto la sua missione profetica e lasciasse ormai al popolo la scelta.
Questo atteggiamento intriga: paura delle rappresaglie di un regime brutale, o semplice strategia per restare al di sopra della mischia? I preti sanno bene che alcuni loro confratelli hanno pagato con la vita le loro critiche al potere.
Una voce che conta ancora
In ogni caso, il clero ha già segnato questa presidenziale. Il suo appello al risveglio civico, le sue critiche frontali alla longevità del capo di Stato e i suoi avvertimenti sulla sofferenza del popolo hanno risvegliato una parte della società camerunese, troppo spesso rassegnata.
E anche se oggi si è rituffato nel Vangelo, una cosa è certa: in Camerun, la Chiesa cattolica rimane l’ultimo contropotere morale capace di parlare alla coscienza collettiva. E in un Paese dove la politica è blindata, questa voce potrebbe essere l’unica a risuonare ancora dopo il voto.
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